Nomadi, cronaca di un fallimento

(articolo pubblicato su LoSpiffero)

La politica delle affermative action si è rivelata inadeguata: ha aumentato quella discriminazione che voleva risolvere, ha peggiorato il livello di sicurezza e amplificato la percezione dell’insicurezza, ha portato a un eccesso di spesa.

Il recente sfratto dei Rom dai campi romani perché titolari di conti correnti milionari (senza avere un lavoro e avendo dichiarato il proprio grave stato di indigenza), ha puntato i riflettori sulla questione dei campi nomadi torinesi: un problema ben lontano dall’essere risolto. Sono trascorsi alcuni mesi da quando i carabinieri sequestrarono all’interno di un campo “sinti” fucili, pistole, mannaie, gioielli, lingotti d’oro (fusi all’interno del campo e poi rivenduti) e ancora orologi, televisori, scanner, ecc.., eppure la grave situazione continua.

Una situazione che Torino non può non affrontare (sebbene al momento la subisca solamente).

Che fare? Per una soluzione responsabile vale la pena continuare a fare appello al sindaco Fassino? O è meglio organizzare un tavolo a cui invitare i numerosi ma dispersi comitati cittadini, i gruppi politici, i rappresentanti delle minoranze?

Quando si parla di convivenza problematica tra cittadini nazionali e minoranze, si parla spesso di Rom, e del problema dell’inclusione sociale dei nomadi in genere.

Un problema che richiede di essere affrontato analizzando entrambe le prospettive: quella di chi nei campi vive, e quella di chi ne deve sostenere i costi e pagare le conseguenze di una politica sbagliata e pressappochista. Una politica che ha prodotto, nella sostanza:

  • difficoltà di convivenza nei pressi dei campi Rom,

  • precarie condizioni igieniche,

  • assenza di legalità,

  • mancanza di sicurezza sociale.

Sono problemi evidenti, concreti, non risolti, né risolvibili con l’attuale approccio al problema. Un problema che inspiegabilmente non si vuole risolvere. La stessa Unione Europea attraverso mere raccomandazioni ed esortazioni – come la “Risoluzione sulle strategie nazionali di integrazione dei Rom, del 10 dicembre 2013 – ha tentato a più riprese di favorire un’effettiva inclusione sociale delle popolazioni Rom.

Come? Sbagliando, perché vengono ripetuti continuamente gli stessi errori. Errori concettuali e di metodo che – benché nelle intenzioni siano finalizzati all’inclusione – hanno prodotto l’allontanamento delle comunità e l’innalzamento di barriere, anche fisiche: tali errori si basano sul principio delle affermative action.

Cosa sono le affermative action? Sono le discriminazioni positive, quelle che consentono ad alcune minoranze (spesso qualificate come più deboli) di godere di condizioni più favorevoli rispetto agli altri cittadini. Secondo i fautori di questa logica, se la minoranza Rom è discriminata (o meglio si decide che sia tale), è necessario che ai Rom siano riservate condizioni migliori rispetto a quelle dei cittadini nazionali, o di altre minoranze. Un’evidente quanto non giustificabile ingiustizia sociale che, pagata con i soldi dei contribuenti, impone alla maggioranza un costo sia economico – senza un ritorno – sia sociale (discriminazione della stessa maggioranza). Questo metodo non solo ha fallito nel suo intento ma è oggettivamente ingiusto.

E ancora, la Risoluzione europea di cui abbiamo fatto cenno invita gli Stati della UE, tra le altre cose, a fornire ai Rom un’abitazione, un’istruzione gratuita, cure sanitarie

Non basta? No. A ciò si aggiungono i sussidi per l’avvio di imprese, il diritto all’abitazione compatibile con il nomadismo (in un modo non meglio precisato) e la diffusione della lingua e della cultura Rom anche nel territorio dell’UE. E ai cittadini non appartenenti alla minoranza? Semplice, tocca pagare, subire condizioni sfavorevoli per legge, ed essere, nella sostanza, discriminati.

Ulteriore problema: l’anomalia italiana.

L’Italia , a differenza degli altri Paesi europei, è l’unico paese in cui esistono i campi Rom istituzionali creati dallo Stato (e dunque pagati dai contribuenti): e questo a fronte della promessa del governo italiano fatta all’Europa (2012) di risolvere tale situazione. Ciò comporta il rischio di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia” (una multa molto salata, per intenderci): oltre il danno, dunque, anche la beffa.

Quale risultato otterrebbe tale approccio?

La risposta a questa domanda potremmo chiederla ai cittadini nazionali – in particolare quelli che vivono in prossimità dei campi; possiamo chiedere loro se sono soddisfatti del livello di sicurezza per sé stessi e per i propri cari, dati i numerosi episodi di furti, violenze, illegalità varie, svalutazioni delle proprie case, e ancora, abbassamento della qualità della vita e della serenità individuale e sociale.

Nella sostanza la politica delle affermative action ha falllito poiché ha aumentato quella discriminazione che voleva risolvere, ha peggiorato il livello di sicurezza e amplificato la percezione dell’insicurezza, ha stimolato nuove forme di xenofobia, ha portato a un eccesso di spesa non sostenibile dalle casse dell’amministrazione pubblica.

Segue… (PARTE 2: LA SOLUZIONE)

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Autore dell'articolo: Claudio Bertolotti

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