TRE STORIE

Giorgio ha 50 anni.

Si sente fortunato in questo periodo, perché ha un lavoro, una famiglia e un buon numero di amicizie.

Ama la sua città, Torino, in cui vive da quando è nato, figlio di una coppia di immigrati della Puglia, che ha visto cambiare, trasformarsi da capitale dell’automobile a … qualcos’altro, la città della cultura, delle olimpiadi, del terziario … mille definizioni per una metropoli sempre più vasta nei suoi confini e sempre più confusa nei suoi obiettivi e nelle sue (tante) capacità.

Ora che comincia il bel tempo, il sabato ha voglia di uscire al pomeriggio con le sue due figlie (6 e 9 anni) e con la moglie per fare una passeggiata. La sua via era un lungo percorso di negozi, tante piccole attività di cui conosceva proprietari e dipendenti.

Ma oggi non è più così. Oggi la passeggiata si svolge su un lungo dipanare di vetrine chiuse inframmezzate da alcuni bar di proprietà di immigrati dell’est Europa o dell’Africa, al cui interno le conversazioni si svolgono in lingue diverse dall’italiano. Ci sono anche due o tre magazzini cinesi, caotici alla vista e con prodotti di basso costo e livello.

E a Giorgio così non piace. Non piace quello che vede (e che non conosce e non riconosce). Ha paura per sé ma ancor di più per la sua famiglia, la moglie e le sue figlie. Chi si fida di chi parla un linguaggio che non comprendi e che non comprende quello che tu dici?


Alexandru è stanco.

E’ arrivato dalla Romania alcuni anni fa e non si è mai fermato.

Ha lavorato come muratore, come piastrellista, come factotum, come uomo di fatica per qualunque incarico che portasse qualche soldo. Ha imparato nuove abitudini, una nuova lingua, un nuovo modo di vivere, così lontano da quello a cui era abituato.

Poi, a forza di faticare, di lottare, di risparmiare è riuscito a mettere da parte abbastanza denaro da dare il primo acconto per acquistare il bar. Un localaccio frequentato da quattro vecchietti mezzo alcolizzati comprato da un italiano stufo di incassare quattro soldi passando le giornate all’interno delle stesse quattro mura.

A lui non pesa passare le giornate, le sere, a volte anche le notti qui dentro. Rispetto alle fatiche di prima, è quasi un divertimento. E poi qui è riuscito a riunire un po’ di amici, altri romeni come lui hanno cominciato a frequentare il bar. E’ un modo semplice di ritrovare l’atmosfera di casa.

Ma si è accorto di come ultimamente le cose stiano peggiorando. La gente del posto, gli italiani, hanno ripreso a guardarlo torvi, gettano occhiate preoccupate dentro il suo locale, fanno il giro largo, non entrano a prendere neanche un caffè. E’ vero che per alcune notti di seguito la polizia è intervenuta; alcuni dei ragazzi all’interno avevano bevuto troppo e alzavano la voce. Ma sono ragazzi, no? e in fondo non han fatto nulla di male, succede spesso e poi è gente che lavora tutto il giorno, arrivano stanchi, con i nervi a fior di pelle, senza una ragazza con cui parlare o passare la serata …


Ayubu è preoccupato.

E’ scappato dall’Eritrea in guerra lasciando la famiglia, che ha venduto l’unica capra che possedevano per comprargli il viaggio. Ha passato un anno a viaggiare verso la Libia. E’ stato catturato dai ladroni al porto che con la scusa di salvarlo dalla polizia libica lo hanno tenuto in ostaggio. Per fortuna uno zio in Germania ha inviato i soldi per liberarlo.

Ha affrontato il passaggio del mediterraneo su una carretta che andava letteralmente in pezzi. Lui che manco sa nuotare, si è trovato in mezzo ad onde altissime e ha patito il mal di mare dall’inizio alla fine.

Arrivato al centro profughi, ha provato a spiegare la sua situazione. Lo hanno riempito con mille parole in francese, che almeno un poco capiva, in inglese e in italiano, che per lui erano lingue sconosciute.

Ha ottenuto il riconoscimento come rifugiato. E’ andato in Campania. Per un anno ha lavorato sotto il sole cocente a raccogliere pomodori. Ha imparato l’italiano.

Poi un suo amico che abita a Torino lo ha chiamato: c’è la possibilità di lavorare come magazziniere, vieni.

Arrivato in città ha cominciato: 10/12 ore al giorno. Casse di verdura da spostare. Pesanti. Uno stipendio in tasca che sembra oro. Un piccolo appartamento. Un sogno di normalità che ogni giorno si trasforma in realtà, imparando ad accettare il freddo di una città del nord, abitudini diverse, cibi diversi.

Il problema vero però è che stanno arrivando tanti africani. Clandestini. Disperati. Molto più disperati di lui. Senza prospettive, senza futuro. Disposti a tutto per vivere e sopravvivere. Pronti anche a delinquere.

E la gente di Torino non distingue; non è abituata. Vede solo la pelle nera. E unisce. Spacciatori. Ladri. Extra-comunitari (come se fosse un delitto esserlo). A cosa è servito spaccarsi le ossa con il lavoro, fare di tutto per essere onesti?


Giorgio, Alexandru e Ayubu non si arrendono e vogliono impegnarsi perché la situazione migliori.

E insieme decidono di dedicare qualche ora per vivere insieme il quartiere, per aiutare chi è in difficoltà, per segnalare a chi è responsabile le cose che non vanno.

Come? Ecco la nostra proposta:

#SicurezzaPartecipata

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Autore dell'articolo: Andrea Peinetti

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